Non passa giorno, feste comandate comprese, senza che io riceva messaggi che paiono fotocopie o telefonate che paiono registrazioni ripetute.
Il riassunto è che i medici rifiutano le visite domiciliari e spediscono automaticamente i pazienti all’ospedale. Il tutto via telefono. A margine, di quello che mi raccontano sulle degenze non mi va di parlare.
Premesso che ancora qualche medico che fa il medico c’è, non si può non constatare che, per questi, si tratta di rarità sempre più rare. E premetto pure, in risposta ai messaggi di cui sopra, che io non posso farci nulla perché non ho alcun potere, faccio un altro mestiere e, comunque, ho un’etica diversa.
Il fatto è che i medici sono sempre meno capaci di fare ciò cui la loro “vocazione” (virgolette) li dovrebbe sollecitare, e le ragioni sono abbastanza facilmente spiegabili.
Già da tempo esiste, ed è d’importazione americana, la cosiddetta “medicina difensiva”.
Nei primi Anni Settanta io frequentavo spesso gli ospedali degli Stati Uniti dove era del tutto solito imbattersi in avvocati che distribuivano i loro biglietti da visita ai ricoverati, suggerendo loro d’intentare comunque una causa ai medici. In caso d’insuccesso, vale a dire se il tribunale avesse assolto il medico, nulla sarebbe dovuto all’avvocato. In caso contrario, la condanna del medico avrebbe portato ad un risarcimento in denaro che sarebbe stato spartito tra paziente e avvocato. Una conseguenza immediata fu il lievitare dei costi assicurativi sostenuti dai medici, e da lì, per difesa, cominciarono a fiorire i cosiddetti “protocolli”. Ad ogni condizione patologica corrispondeva burocraticamente una terapia benedetta da “esperti”, e, se il medico a quella si fosse attenuto senza eccezioni, aveva in cambio la garanzia di un’assoluzione certa. Insomma, la negazione della medicina su misura con il medico trasformato in “prudente” esecutore.
Più o meno contemporaneamente, cominciarono ad avere grande sviluppo apparecchiature di ogni genere che, nell’intenzione, avrebbero dovuto aiutare il medico ad emettere diagnosi sempre meno imprecise e sempre più obiettive. Addirittura, si cominciarono a lanciare apparecchi che emettevano responsi automatici e, tra quelli, tanto per non fare che un esempio, gli elettrocardiografi che, almeno all’inizio, commettevano errori a volte anche piuttosto gravi. La conseguenza di tutto ciò fu, e continua ad essere con l’aggravante dell’estrema diffusione delle apparecchiature, il declino della capacità del medico di diagnosticare, fino al quasi abbandono della semeiotica, cioè di quella branca della medicina che si occupa dei sintomi e dei segni clinici.
A questo si aggiunge, se non la morte comunque prossima, l’agonia della ricerca indipendente. Di fatto, a disporre del denaro necessario per sostenere la ricerca sono solo le aziende farmaceutiche e, come è facile immaginare, queste sovvenzionano esclusivamente ciò che può garantire guadagni. La “patologia” della situazione non ha tardato a manifestarsi: le malattie che “non rendono” sono abbandonate (si chiamano malattie orfane e sono all’incirca 10.000); le terapie naturali, cioè quelle che non prevedono la chimica industriale, sono sbeffeggiate quando non addirittura proibite; i dati sfavorevoli sono censurati; malattie sono ingigantite o inventate di sana pianta al solo scopo di vendere determinati prodotti.
Le riviste mediche (chiamate abusivamente “scientifiche”) sono di fatto mantenute delle aziende farmaceutiche, con tutto quanto questo significa, e il sistema detto del peer review è diventato una farsa mortificante, con i “pari” che nella quasi totalità dei casi altro non sono se non dei dipendenti delle industrie di medicinali. A qualunque tentativo di rendere noti risultati non graditi viene negata la pubblicazione, e i medici prendono per oro colato tutto quanto viene diffuso per quel tramite.
Da qualche tempo lo strapotere economico delle industrie si è impadronito degli enti di controllo, della politica, della cosiddetta informazione e dell’università, tanto da costringere (“per legge”) i medici ad agire come automi privi di facoltà decisionali, facendosi beffe di quel binomio di “scienza e coscienza” che deve essere un pilastro dell’etica professionale.
Il limite di oggi (ma, come ogni record, è destinato ad essere battuto) è la radiazione dall’ordine professionale, cioè il divieto di esercitare la medicina, comminata ai medici che non si adeguano alla dittatura corrente, e questo indipendentemente dall’individualità del paziente e dai risultati. Qualunque opinione che non sia in ossequio al regime è ferocemente sanzionata.
Non fosse che per motivi di dignità, fare il medico non è “un mestiere come un altro”. La vocazione è un requisito inderogabile, e, se la vocazione non c’è, il signor dottore è solo un mostriciattolo con venature criminali. Nei decenni di frequentazione con quella categoria, io ho trovato davvero di tutto e, in quel tutto, ho trovato medici veri, degni di quel titolo. E ancora ne trovo.
A loro faccio appello: recuperate la dignità della vostra professione, e tornate padroni della vostra scienza e della vostra coscienza. E a chi non è medico faccio pure appello: rifiutate i mascalzoni. Se nessuno si rivolgerà più a loro, la razza si estinguerà naturalmente.
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