Chissà se nelle scuole di oggi, quelle in cui gli allievi se ne stanno a casa loro, in mutande, con uno schermo di computer davanti, un telefono cellulare a sinistra e un videogioco a destra, si ha ancora contezza dell’esistenza di un tale Dante Alighieri.
Costui, fiorentino di nascita, perse anni a scrivere 14.233 endecasillabi ordinati in terzine, a comporre quella che poi, dopo anni, un tale Giovanni Boccaccio chiamò Divina Commedia (Trattatello in Laude di Dante.)
Nel terzo canto dell’Inferno, questo signore che, facendo il poeta, ebbe saltuariamente qualche difficoltà a portare a casa la pagnotta, tratta di “coloro che visser sanza 'nfamia e sanza lodo", quei personaggi che non prendono mai posizione, quelli che “la verità sta nel mezzo”, quelli che, a tempo debito, propendono invariabilmente per chi avrà vinto la guerra. Tra loro il signor Alighieri include anche quegli angeli che non si schierarono né per Dio né per Lucifero.
Il disprezzo che traspare evidente nei loro riguardi è inequivocabile. Per Dante quelli non sono nemmeno vissuti davvero (“mai non fur vivi…”) Nessuno li vuole, non certo il Paradiso, e nemmeno l’Inferno da cui, pur condannati ad una pena infamante, sono tenuti fuori. Sono indegni di qualunque considerazione, tanto che un tale Virgilio che accompagna Dante nelle prime due grandi tappe del viaggio nell’oltremondo esorta “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa.”
Questi ricordi liceali mi riportano ai saggi da bar, a quelli che non prendono posizione perché “tanto è tutto uguale.”
La mia è certo una deformazione indotta da cattive frequentazioni culturali, ma il mio disprezzo per loro è pari a quello del signor Durante di Alighiero degli Alighieri, passato alla storia di chi ancora se ne interessa con il nome semplice di Dante.
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